Io vivo nell’ombra: Comandante Alfa



Camminare nell’ombra con la morte accanto per difendere gli altri e la legge. Questo è il Comandante Alfa, uno dei cinque “soci fondatori” dell’Gruppo d’Intervento Speciale dei Carabinieri, meglio noto come GIS. A questo scopo, un’esistenza votata alla segretezza più totale (anche nei confronti dei propri cari). Il Comandante Alfa ci svela anche le durissime fasi di addestramento, le armi, le attrezzature, le tipologie d’intervento e le tattiche di una delle forze speciali più preparate del mondo”.

Pordenonelegge rende omaggio al Comandante Alfa. Sala gremita, attentissima come in pochi incontri, di gente annoiata con i cellulari in mano non se ne vede. Occhi puntati su di lui, che pur con il volto coperto per ragioni di sicurezza, si sveste del ruolo di eroe e vuole essere uomo tra la gente. Esce scortato, supera la porta d’entrata, và a salutare il pubblico rimasto all’esterno che si accontenta di assistere all’incontro attraverso il maxischermo.



Accenna alla sua infanzia in Sicilia, sua terra natale, al papà muratore. “I figli dei mafiosi avevano possibilità che agli altri erano negate, sicuramente questo ha condizionato quella che è stata poi la mia strada futura”.

Il suo primo pensiero và alla famiglia. “A mia moglie non ho mai avuto il coraggio di dirlo, ma è stata bravissima, le devo molto. E’ sicuramente anche grazie a lei se ho potuto fare questo mestiere, è stato importante non avere problemi in famiglia, è stata complice e con i nostri figli ha fatto un ottimo lavoro, è stata madre e padre, ha dato loro una buona educazione. Con loro sono mancato spesso, stavo via anche 5 o 6 mesi di fila, mi sono perso l’emozione del primo passo e del primo dentino, mi hanno accusato di essere egoista, ho dovuto aspettare che diventassero grandi per recuperare un dialogo e spiegare quella che è stata la mia missione. Solo mia moglie sapeva, dovevo proteggere i bambini, il mio primo pensiero era sempre per loro. Per i miei genitori. Per la famiglia. E adesso c’è anche un nipotino.



Ha continuato parlando di quello che è stato forse il caso più eclatante della sua carriera, la liberazione della piccola Patrizia Tacchella. “Non ho mai tolto il mephisto prima che fosse conclusa un’operazione, mai, ma in quell’occasione l’ho fatto. Era una bambina rapita, aveva paura, e per tranquillizzarla ho scoperto il volto, l’ho rassicurata dicendole che facevo parte dei Carabinieri ed ero lì per liberarla. Lei mi ha risposto “Vi stavo aspettando”. Non ci sono riconoscimenti né medaglie che possano eguagliare la soddisfazione e la commozione di quel momento”.

Ha parlato poi dell’amicizia, “quella vera, con la A maiuscola” che lo lega ai suoi ragazzi. Ha parlato della paura, “che c’è sempre, è fondamentale, il punto non è non avere paura, ma imparare il coraggio”. Ha parlato delle lacrime, “piangere è uno sfogo, ogni tanto è importante, liberatorio”. Conclude ringraziando il pubblico numeroso, “vi ringrazio, non immaginavo così tanta vicinanza, l’amore della gente è importante, ci occupiamo dell’incolumità collettiva mentre le persone dormono sogni tranquilli”.

SP